Diario di un critico d'arte

Mi chiedo se studiando un quadro attentamente, osservando e catalogando le sue caratteristiche in ogni minimo dettaglio, si possa finire per farlo diventare invisibile. E’ possibile che, mentre si misura meticolosamente la possibile età della tempera o si ricerchino possibili incongruenze stilistiche si perda di vista la sua poesia? O che nella descrizione di tutte le sue misure si finisca per ignorare l’emozione provata alla vista del nostro primo Kandinskij, la tenerezza che pervadeva l’animo di Raffaello? Credo che sia possibile. A mio parere, se ci avviciniamo al nostro oggetto con la sensibilità di uno statistico o di un anatomista, ci allontaneremo sempre di più dal pianeta meraviglioso e incantevole dell’immaginazione, da quella forza di gravità che inizialmente ci aveva attratto verso il nostro campo di studi. Questo non significa che si dovrebbe cessare di stabilire fatti e verificare le informazioni in nostro possesso. Vorrei solo suggerire che se quei fatti non riescono ad impregnare di lampi di intuizione poetica, allora resteranno per sempre delle gemme grezze, delle pietre rozze che forse non vale neppure la pena raccogliere. Quando fissiamo gli strati sovrapposti delle pennellate, dobbiamo imparare a cogliere la lucida follia di Dalì quando si immerse nella “persistenza della Memoria”, quando una galleria, all’interno di un palazzo nobiliare, viene catturata dall’occhio delle nostre fotocamere dobbiamo imparare a sentire lo stupore a bocca aperta dei primi visitatori, sommersi dalla maestosità religiosa, dalla solennità dell’insieme delle tele. Osservando un mosaico, vediamo i sottili incastri delle piastrelle, color oro, che lo compongono, i bizantini vedevano l’incarnazione del divino e la potenza dello spirito che irriada luce. Finché non trasformeremo i nostri semplici studi in autentiche visioni, finché il nostro occhio non sarà abbastanza maturo da cogliere una l’armonia nell’accecante caledoscopio di una collezione privata, il nostro sarà solo un passatempo, mai una passione. Da bambino, la mia passione erano i colori, durante le lunghe estati degli anni 80 mentre il resto del paese correva nei campi di calcio volendo emulare le imprese della nazionale di Bearzot, correvo a perdifiato nei campi appena fuori Chioggia, nella provincia de Venesia, come si dice da noi. Con la scarpe da tennis che trituravano l’erba secca e le felci, verso il mio appostamento, dove restavo seduto con il naso all’insù per osservare una spettacolo sempre unico. Le nuvole colorate dai raggi dell’aurora, sfumature evidentemente diverse dai riflessi della luna sulla laguna, sempre cangianti, seguendo le onde. C’è stato un momento nel corso degli anni, nello spazio di tempo che va da quelli esplosivi dell’ottimismo seguito al boom economico a quelli attuali, rannicchiati nell’ombra incombente di tensioni mondiali sempre maggiori, c’è stato un determinato momento in quella linea temporale in cui la mia passione andò perduta, trasformando involontariamente l’oro splendente in un banale e grigio archivio di dati. Questa graduale opacizzazione passò inosservata, incontrollata e infine si calcificò in abitudine riflessa. Solo di recente sono riuscito a cogliere un lampo fugace attraverso la polvere accumulata con lo studio metodico da erudito: in visita ad un conoscente malato in un ospedale per conto di un amico comune, stavo tornando al parcheggio quando d’un tratto e inaspettatamente vidi un bambino che urlava perché la pioggia gli stava rovinando un disegno tracciato alla belle e meglio con dei gessetti colorati, trafugati, mi confidò poi, chinando il capo e arrossendo, dalla lavagna della scuola. Mi accostai a lui sorridendo dell’importanza che dava a quelle poche linee, che, nella mia testa, appesantita da nozioni, erano facilmente replicabili a volontà. E rimasi di colpo incantato. Sono sicuro che fissai, nei suoi occhi, la stessa incredulità, impotenza e tensione emotiva propria di Louis Beroud quando nel 21 agosto 1911 si trovò a fissare lo spazio vuoto, là dove era esposta la Monna Lisa di Leonardo. Trafugata dall’imbianchino trentenne Vincenzo Peruggia, la sera prima. Morirono nella mia gola le vuote parole di consolazione e feci mio il suo senso di perdita. Dimentichi entrambi di avere un cappuccio con cui ripararci dall’inclemenza del tempo, sedemmo e fissammo la vittoria della natura. Vittoria vana, perché il vincitore era inconsapevole della sua stessa vittoria. E, insieme, fummo spettatori di una creazione di nuovi colori. Benedetti dalla passibilità di assistere ad una nascità. Rivoli d’acqua, tinti dall’arcobaleno, si mischiarono, si unirono, in una lotta per il predominio, dove il premio era l’emergersi di fronte agli occhi delle spettatore. Frange di spuma colorata, con sfumature che avrebbero acceso l’invidia di Monet. Acque colorate, colpite dagli stessi riflessi di luce che probabilmente ispirarono i “pescatori in mare” di William Turner. Felici di aver portato la materia grezza che potè essere così lavorata. La scuola non saprà mai che la perdita di quei gessetti colorati permise l’esplosione di una emozione. Il piccolo artista, non più bambino per me, bensì mio compagno di esperienza, rise ispirato, posso solo augurarmi che la scuola dove andrà sia disposta a perdonare le sparizioni di materiali che, ne sono sicuro, di colpo aumenteranno. Mi allontanai, lentamente, pur avendo recuperato le mie capacità motorie dopo l’incanto, mi accorsi che facevo fatica a ritrovare il mio equilibrio. Qualche aspetto di quell’esperienza aveva fatto vibrare qualcosa dentro di me, creando un legame fra il mio io adulto, torpido e spossato, e il bambino che se ne stava seduto scompostamente sotto la fioca luce delle stelle, mentre i grandi riflessi notturni mettevano in scena il loro spettacolo sopra di me. La spinta a sperimentare, più che limitarsi a registrare, si era risvegliata in me, mettendo in moto i processi mentali e la riconsiderazione della mia esperienza che mi hanno portato a scrivere il presente articolo.
Non intendo suggerire che abbandonai su due piedi la carriera accademica e la ricerca teorica per fuggire via ed iniziare a trafugare materiale pittorico da sperimentare sulle strade. Anzi, al contrario, mi sono gettato nello studio con rinnovato fervore, in grado di vedere i fatti e le descrizioni aride sotto la stessa magica luce che li aveva trasformati e sostenuti quando ero più giovane. La comprensione scientifica degli accostamenti di colore, come diverse lunghezze d’onda della luce, lo studio della genesi dei colori secondari a partire dai primari, non impedisce una valutazione poetica dello stesso fenomeno. Entrambe, anzi, si rafforzano a vicenda: un occhio più lirico presta ai freddi dati un’atmosfera incantata dalla quale essi si erano ormai da tempo distaccati. Immergendomi avidamente in testi di consultazione polverosi che non toccavo da tempo, mi sono imbattuto in tele dimenticate che mi hanno quasi mozzato il respiro, chiesupole dall’apparenza squallida che svelavano tesori preziosi di iridescente meraviglia, quasi graffiati sulle mura. Ho riscoperto molte gemme da tempo perdute fra le ragnatele, antichi e possenti immagini che trasmettevano ugualmente e senza sforzo alcuno l’essenza del loro soggetto. Oggi, se osservo la notte stellata di van Gogh, cerco di andare con lo sguardo al di là, della esatta sequenza di sfumature che dall’azzurro tendono al blu notte, di vedere al di là della prospettiva delle case che si allontanano dalla vista dell’osservatore. Cerco invece di vedere l’artista chiuso nel nosocomio dell'Hotel-Dieu, a sublimare la sua tensione emotiva nelle sfuggenti pennellate che rincorrevano se stesse. In “Manao tupapau” di Paul Gauguin, non guardo l’esatta corrispondenza del ritratto della “buon selvaggia” al movimento Sintesista, ma ripenso alle parole del suo racconto biografico:” con la certezza di un domani uguale al presente, così libero, così bello la pace discende in me”. Forse, invece di misurare l’ampiezza della pennellate, dovremmo interrogarci su ciò che quelle mano possa aver sentito mentre le stendeva. Forse, studiando il modo in cui la luce che filtra dalle nubi viene ricreata in una tela, dovremmo concederci un momento di pausa e riconoscere che un tempo chi credeva scorgeva la maestà di Dio in quella luce.